NOTA! Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare servizi ed esperienza dei lettori. Se decidi di continuare la navigazione, consideriamo che accetti il loro uso. Per saperne di piu'

Approvo


Pi Kappa - Anno II N° 9 - Settembre 1973

Iperborea

Che cosa celano i ghiacci artici? Forse i resti di un lussureggiante mondo di cui rimangono soltanto brandelli di ricordi, forse le vestigia di favolose città sepolte?


L'ultima terra europea che si incontra verso l'estremo nord è l’Islanda, l'isola dal suolo ricoperto dai ghiacci e dalle colate laviche degli innumerevoli coni vulcanici che le conferiscono un aspetto tormentato, quasi al di là di ogni dimensione umana.

Il Gullfoss, un'imponente cascata islandese di 37 metri d'altezza, rappresenta forse una testimonianza degli sconvolgimenti apocalittici a cui fu soggetta questa terra

Così la videro i monaci irlandesi che nell'8° secolo, cento anni prima della colonizzazione vichinga, approdarono su quelle coste spettrali per portare il messaggio cristiano a nuovi popoli.
L'isola venne trovata completamente deserta, e la cosa stupì moltissimo i missionari: profondi conoscitori delle opere del mondo classico (che avevano avuto cura di salvare dal caos di quei secoli oscuri) erano partiti verso il Nord convinti di trovarvi le genti pagane che i viaggiatori antichi dicevano di aver incontrato durante le esplorazioni nei mari settentrionali.
Già Erodoto, nelle sue « Historiae », aveva parlato dell'esistenza degli Iperborei (alla lettera « gli abitanti delle terre poste al di là di Borea », cioè oltre il « vento di settentrione ») accennando ai frequenti contatti avvenuti tra questo popolo ed i suoi connazionali, i Greci, presso i quali gli stranieri godevano di una venerazione riservata ai semidei.
Secondo la mitologia ellenica, lo stesso Apollo era stato portato, bambino, in quelle lontane e misteriose terre dai sacri cigni, e là aveva soggiornato a lungo prima di ricomparire nei luoghi natii per uccidere il terribile drago posto a guardia dell'Oracolo di Delfi. Terminata la sua impresa, il dio era più volte tornato tra gli Iperborei per visitare gli amici d'infanzia.

Ai limiti del mondo

Le età posteriori ci diedero degli uomini del Nord l’immagine di una comunità di uomini saggi e felici in una terra feconda su cui vivevano per millenni: quando erano stanchi della loro esistenza, potevano trasferirsi, in virtù di « grandi magie », in altri mondi.
Di origine iperborea sembra fosse anche Abari, poeta e sacerdote del culto di Apollo, dal quale dichiarava di aver ricevuto una freccia miracolosa e il prezioso dono della profezia. Questo strano individuo, dalla biografia rapportabile a quella del conte di Saint Germain, visse storicamente tra il 7° e l'8° secolo a.C. Di lui e delle sue imprese si sa solo quanto dice la leggenda. Profeta, detentore di antichissime conoscenze e grande taumaturgo, viaggiò per il mondo mediterraneo, distinguendosi - dice Erodoto - per il suo curioso comportamento: non voleva mai mangiare, ad esempio, il cibo che gli veniva offerto.

Crateri vulcanici lungo le sponde del lago Myvatn: attorno ad essi fioriscovo innumerevoli leggende

L'esistenza delle terre poste all'estremo Nord era stata confermata anche dagli intraprendenti navigatori fenici e cartaginesi che si avventurarono in quelle zone alla ricerca delle materie prime, per lo più stagno e piombo, di cui avevano bisogno. Si sa, ad esempio, che il cartaginese Imilcone, nel 5° secolo a.C., si spinse sino alle coste dell'Irlanda e forse anche oltre.
Ad approdare in Islanda fu certo il marsigliese Pitea. Le tetre descrizioni che, al ritorno, fece dell'isola, « ultima, brumosa », convinsero i suoi contemporanei che il navigatore era giunto ai limiti del mondo, e quella terra, dove le notti sembravano non avere mai termine, divenne per loro I' « Ultima Tule ».
Ma torniamo ai monaci irlandesi: esplorata in lungo e in largo l'isola alla ricerca di tracce d'insediamenti umani, non trovarono assolutamente nulla che potesse farla identificare con la Tule abitata dagli Iperborei. Tuttavia rimasero increduli: anch'essi pensavano che i miti non nascono dal nulla.

I custodi della svastica

L'Islanda, infatti, era nota presso i pagani del continente europeo quale centro religioso di grandissima portata. Demetrio di Tarso, citato più volte da Plutarco, precisava che, sebbene i suoi abitanti fossero stati poco numerosi, erano inspiegabilmente tenuti in gran conto dai Bretoni i quali li consideravano sacri ed inviolabili.
C'erano, poi, le tradizioni druidiche che raccontavano come l'Islanda fosse il relitto di una grande terra scomparsa in seguito ad un immane cataclisma cosmico. Quattro saggi, eredi di un'inimmaginabile cultura, si sarebbero divisi quell'estremo lembo di suolo vulcanico.
Erano i « Quattro Maestri », custodi di tremendi segreti, ed il loro simbolo era la svastica: più tardi avrebbero costruito in Gran Bretagna l'enorme complesso megalitico di Stonehenge per iniziare i popoli continentali al culto dei loro dei solari. La leggenda celtica precisa che le pietre del santuario furono portate direttamente dall'« isola sacra » per essere collocate nel luogo in cui preesisteva un altro tempio solare, molto più antico, caduto in rovina.

"Uomini biondi, dagli occhi azzurri": chissà che questo pescatore islandese non sia un discendente dei mitici Iperborei?

Ma perché - si chiesero i missionari - Tule era stata abbandonata? I Greci dicevano che gli Iperborei abitavano una terra fertile e Diodoro Siculo, nel descriverla « grande quanto la Sicilia », asseriva che il suolo dava due raccolti l'anno.
In effetti ancora nel 9° secolo, dopo che i Vichinghi colonizzarono l'isola, esistevano rigogliosi campi di grano. La notizia, se non giungesse da fonte storica, sarebbe incredibile, considerando che oggi l'Islanda deve importare i cereali dal continente e che gli unici suoi ortaggi crescono in serra. Evidentemente deve esserci stata, nel corso dei secoli, una degenerazione delle condizioni climatiche, dovuta probabilmente alla riduzione dell'attività vulcanica che alimenta il calore delle correnti marine circostanti.

Una porta tra i vulcani
I Vichinghi approdati a Tule, comunque, riprese le antiche tradizioni pagane, non tardarono a rinverdire i miti della presenza degli antichi isolani con nuove leggende. Presero a parlare dei loro incontri con misteriosi vascelli « dalle vele di fiamma », i Wafeln, che scivolavano veloci sull'acqua lasciandosi dietro scie turbinanti di scintille luminose. Ed i numerosi vulcani divennero gli ingressi attraverso i quali gli Iperborei avevano raggiunto il centro della Terra.
La credenza affascinò a tal punto che persino nel 16" secolo Arne Saknussemm, alchimista ed occultista islandese, sosteneva ancora tale opinione, aggiungendo che l'isola costituiva le ultime vestigia di un continente scomparso i cui abitanti, per sfuggire alle inclemenze meteorologiche, si erano trasferiti in un mondo sotterraneo attraverso il cono del vulcano Hekla, di cui ben pochi suoi contemporanei conoscevano l'esatta ubicazione. Quest'ultima era però nota ai Vichinghi, i quali raccontavano come quel cratere ospitasse le anime dei « veri isolani », che alcuni « testimoni » avrebbero visto entrare o uscire dal cono fumante. Esisteva però un altro ingresso al « mondo sotterraneo », abitato da individui di carnagione pallida: il vulcano di Snaeffelsjokull, sul quale Jules Verve imperniò il suo « Viaggio al centro della Terra ».
Mentre le tradizioni nordeuropee propendono per l'esodo degli Iperborei attraverso le viscere del nostro pianeta, quelle orientali narrano che un popolo di conquistatori « biondi, dagli occhi azzurri » emigrò dall'estremo settentrione verso Sud, fino a raggiungere l'India. Ancora oggi gli Asiatici, soprattutto quelli di origine ariana, conservano il ricordo della Cveta-Dvipa, l'« Isola Bianca » o « Isola dello splendore del Nord » (curioso è il fatto che questa denominazione fu data anche dai primi Vichinghi che avvistarono la favolosa terra). Testi antichi come i Veda e il Mahabharata, poi, ci tramandano il ricordo di una primigenia patria nordica, con convincentissimi riferimenti astronomici.

Questi graffiti danesi presentanti simboli comuni alla zona mediterranea ed all'India potrebbero sostenere la tesi della migrazione degli Iperborei

La Cveta-Dvipa sarebbe stata abitata dagli Uttarakura, circondati dal « mare bianco » o « mare di latte », poetiche espressioni che ci rendono in maniera stupenda l'idea delle sterminate banchise dell'Oceano Glaciale Artico. Non sempre però - ci dicono altre tradizioni indiane - queste terre furono coperte dai ghiacci: un tempo vi lussureggiavano foreste abitate da uomini « che sapevano comandare al tuono ed al fulmine ».

Le nebbie di Tule
La saga dell'« Ultima Tule » ci pone due inevitabili interrogativi. Il primo ci rimanda alla mitizzazione, da parte di numerosi popoli antichi, della lontana, quasi irraggiungibile Islanda, il secondo ci prospetta l'enigma della descrizione di una terra fertile e riscaldata da un sole « mediterraneo ». Ci sembra di poter dedurre che l'Islanda esprimeva il ricordo ancestrale di un continente molto più lontano nel tempo, con un clima simile a quello descritto a proposito della patria degli Iperborei citati da Erodoto e da Demetrio di Tarso.
A questo punto dobbiamo forse volgerci a quella tradizione tibetana che ci parla dell'esistenza, in tempi immemorabili, di una terra situata nei pressi dell'attuale equatore, ricchissima di fauna e flora, abitata da uomini capaci di « copiare gli uccelli » e « navigare oltre l'aria ». Un cataclisma di eccezionale portata avrebbe poi « capovolto » il nostro pianeta, portando quel continente nella zona nordica in cui ora si trova. In seguito i ghiacci avrebbero cancellato ogni traccia di civiltà, costringendo i sopravvissuti ad emigrare verso Sud.
A parte ogni altra considerazione, cospicui giacimenti di carbone fossile delle Spitzbergen (che avrebbero fatto parte, con la Groenlandia e l'Islanda, di un unico blocco geologico) sembrano confermare la realtà dell'esistenza di Iperborea. Il carbone fossile è infatti il risultato di una lenta trasformazione che ha origine dall'accumulo stratificato di sostanze prevalentemente vegetali provenienti dall'abbattimento naturale di foreste rigogliose e lussureggianti simili a quelle tropicali della nostra era.
Ecco, quindi, come potremmo ricostruire il paesaggio primordiale delle Spitzbergen: alberi giganti a lungo fusto ricchi di ombrose fronde, un tappeto di fitta vegetazione, animali di ogni specie. È l'immagine di un paradiso terrestre irrimediabilmente perduto, che vive solo più nell'anima di chi sa sognare il passato.

Giancarlo Barbadoro


Web credits  
© Giancarlo Barbadoro