Il Giornale dei Misteri N°10 - Gennaio 1972

Le civiltà preistoriche dell'età dell'uranio

I carri lucenti come il sole - La forza eterea che colpisce il suolo - II fulmine di ferro ed il bassorilievo del Palenque - II mistero di Atlantide


Ricorrente nelle tradizioni dell'umanità è il richiamo all'antico mito del Paradiso Perduto, dell'Eden, da cui l'uomo fu scacciato per la sua superbia e disobbedienza alla divinità.
Come per il cristianesimo anche per gli antichi pagani era vivo questo mito e c'è da supporre che anche le genti prima di loro se lo tramandassero.

Esplosione di una bomba atomica: l'enorme massa di gas si solleva fino a circa 5.500 metri

Ad esempio di molte altre, anche per questa probabilmente c'è un fondo di realtà. Basta sondare la storia nelle sue profondità più remote ai limiti dell'incerto per accorgersi che esiste qualcosa di « dimenticato » da cui la nostra attuale cultura si è sviluppata.
Si vuole far discendere l'origine di questo mito dalla presenza di antichi e vasti imperi che coprivano dieci-quindicimila anni fa, in poche regioni l'intera superficie del nostro pianeta; imperi che scomparvero in seguito a sconvolgimenti naturali che portarono l'uomo dall'illuminismo alla barbarie e da cui si risollevarono con l'avvio delle civiltà Sumere ed Egizie senza più ricordare lucidamente le scienze e le arti che avevano posseduto.
Di queste scienze ed arti, e soprattutto per le prime, si è parlato molto, al punto di congetturare che i nostri lontani progenitori conoscessero addirittura il segreto della fissione nucleare.
In tutta coscienza, pur immaginando lo splendore di civiltà altamente evolute, è difficile accettare un simile pensiero, ma tantomeno lo si può scartare a priori senza aver preso in esame tutta quella precisa e circostanziata casistica di tradizioni e documentazioni che vogliono proprio avvalorarlo.
Occorre precisare onestamente che testimonianze veramente tangibili di civiltà atomiche del passato non ne esistono, ma ce ne sono quanto basta per instillare il più acuto sospetto sul- la veridicità della loro esistenza.

Una tecnologia perduta
Innanzitutto troviamo che le tradizioni di tutti i popoli più antichi della Terra hanno in comune un sottofondo di identica cultura rapportabile ad un'inspiegabile affinità architettonica di templi e di città.
Una similitudine che può essere scaturita solo in un grande impero capace di mantenere collegamenti culturali sempre aggiornati grazie ad una efficente rete di mezzi di comunicazione e trasporto.
Un concetto che rende implicito l'uso di grandi navi oceaniche e di aerei... di tutta una straordinaria tecnologia che si può intravedere dietro.
Non è raro trovare nelle leggende le citazioni che si riferiscono a prodigiosi carri celesti usati dagli dei nei loro spostamenti sulla superfice del pianeta.
Nel « Ramayana », il poema epico-religioso sanscrito dell'indiano Valmiki si narrano le gesta dell'eroe semidivino, Rama, che è aiutato da altre divinità assise su carri che « van per l'aria ». Ma lui stesso ne fa uso.
Ecco come l'autore descrive il « Puspaca », il modello in uso presso gli uomini tra i « vimana », i carri celesti: « ...Ho il carro che si noma Puspaca, lucente come il sole, divino e capace di muoversi a sua voglia tra gli strati dell'aria »... « colà condotto il carro risplendente al par del sole, divisato d'oro in ogni sua parte con il padiglione guernito di vessilli bianchi »... Tutta quanta la città accorreva a Nandigrama, festante e curiosa, ed ecco apparire portato dall'aria, come una luna che sorga, il divino carro Puspaca con sopra Rama.
Non si può essere toccati dal come il Valmiki descriva con tanta sicurezza e franchezza questo mezzo volante. Un vero e proprio racconto di fantascienza per quei tempi, ma bisogna tener conto del rilievo che vien dato all'esistenza del Puspaca e come questo venga citato in un testo religioso che per gli indù ha lo stesso valore della Bibbia.
Dal canto suo, il « Maha Bharata », altro poema epico che per la sua importanza religiosa non è secondo al Ramayana scende in altri particolari descrittivi, come questi: « ...i vimana sono nuvole azzurre a forma di uovo o di globo luminoso"» ... « mosse da una forza eterea che alla partenza colpisce il suolo » o « da una vibrazione emanante una forza cosmica invisibile » emettendo « suoni dolci e melodiosi » irradiando « luce brillante come il fuoco » e la loro traiettoria nel cielo appariva come « una lunga ondulazione che le avvicinava o le allontanava dalla terra »...
Un altro testo sanscrito completa la descrizione aggiungendo che « ...il vimana procede attraverso la regione del firmamento che è sopra a quella dei venti... » (addirittura potremmo leggere che tali macchine volanti potevano muoversi nello spazio) e che... « il carro celeste può muoversi in una corsa circolare, o avanzare o indietreggiare e fare altri tipi di movimento... ».

Quetzalcoatl, il serpente piumato, che discese dal suo naviglio per colonizzare il centro-America

Quest'ultima citazione toglie il dubbio che i vimana potessero essere la rappresentazione poetica delle stelle viste come carri divini.
Dal « Samarangana Sutradara » apprendiamo poi che esistevano più tipi di vimana. I più grandi erano usati dagli dei, i più piccoli dai dignitari di corte che sapevano benissimo come costruirli e il cui segreto era tramandato solo tra i più stretti consanguinei.
Dallo stesso libro, nel capitolo detto « Dhanurveda » si possono ancora oggi leggere brani descrittivi sui metodi da impiegare per la costruzione di queste fantastiche macchine volanti: « ...quattro forti contenitori di mercurio devono essere costruiti nell'interno della struttura. Quando questi siano stati scaldati da un fuoco controllato, contenuto da recipienti di ferro, il vimana sviluppa una potenza di tuono attraverso il mercurio. E tutto ad un tratto diventa una perla in cielo... ».

Esplosione nucleare?
La nostra storia dell'aviazione ci porta numerosi esempi di tentativi fatti dagli uomini per conquistare il cielo a bordo di macchine complicate e che solo l'avvento del motore a scoppio permise ai fratelli Wright di sollevarsi con il loro malconcio aereo apochi metri dal suolo. Nulla di paragonabile ai prodigiosi vimana.
E' chiaro che gli aerei della letteratura indù fossero costruiti con una tecnologia molto più avanzata della nostra attuale e che sfruttassero principi molto semplici di funzionamento che pur tuttavia oggi nei nostri attrezzati laboratori aeronautici non riusciremmo a riprodurre.
Frutto e vestigia di una civiltà atomica del passato, sopravvissuta grazie alla pazienza certosina delle classi religiose di quei tempi?
Nel « Mausola Purva » troviamo una sconvolgente risposta. « ...E' un'arma sconosciuta, un fulmine di ferro, un gigantesco messaggero di morte, che ridusse in cenere tutti i membri della razza dei Vrishni e degli Andhaka. I cadaveri bruciati non erano neppure riconoscibili. I capelli e le unghie cadevano. Il vasellame si rompeva senza apparente causa, gli uccelli diventavano bianchi. Nel giro di poche ore il cibo diveniva malsano e il fulmine si riduceva in fine polvere... ».
« ...Cukra, volando a bordo di un vimana, lanciò sulla tripla città un proiettile unico carico della potenza racchiusa nel cosmo. Un fumo incandescente, simile a diecimila soli, si levò nel suo splendore distruttore... ». « Quando il vimana atterrò, apparve come uno splendido blocco di antimonio (materiale dall'aspetto metallico) posato al suolo... ».
Superfluo a questo punto ogni paragone con quanto accadde a Hiroshima.

Il fuoco del cielo
Dall'altra parte del globo, là dove nacquero e si svilupparono le civiltà dei Maya, degli Aztechi e degli Incas, altre testimonianze storiche tramandano un'altra porzione di quelle vestigia antiche di civiltà atomiche.
A Palenque, nell'America Centrale un bassorilievo mostra distintamente senza ombra di equivoco la figura di un uomo ai comandi di una macchina simile ad un jet.
Non meno sorprendenti i disegni del « Codice Nuttal », azteco, in cui sono raffigurati uomini in volo che tengono sulle loro spalle delle specie di bombole da sommozzatore con ugelli terminatori.
Proprio come se si trattasse di propulsori individuali, sorprendentemente simili a quelli utilizzati dai reparti di fanteria degli USA.
Nell'estremo oriente, antichi testi ricordano le armi di distruzione che i nostri padri possedevano. Lo Ho-yao, l'arma dal fuoco divorante, lo Hotung, la canna da fuoco e il Tien-hokieu, il globo contenente il fuoco del cielo.

Un vecchio albero di canfora di cui non resta che un moncone bruciato, è il testimone dell'esplosione atomica di Hiroshima

La leggenda ci parla anche dell'imperatore cinese Wu-ti, della dinastia degli Han, che per rivedere la sua favorita Li-fu-jen morta in seguito ad un incidente si rivolse ad un saggio dell'Antica Scienza il quale l'accontentò facendogli rivedere l'amata su di un telo di panno bianco disteso ad una parete del suo palazzo.
Di tutto questo roteare fantastico di leggende e di immagini che non dovrebbero esistere nell'iconografia ufficiale che la scienza ha stilato per la storia dell'umanità ecco rinsaldarsi l'ipotesi di superciviltà scomparse le cui conoscenze tecnologiche dopo la grande catastrofe che le distrusse, sarebbero sopravvissute frammentarie ad uso di quei pochi uomini d'élite che le avevano conservate dopo essersene impossessati fortuitamente.

L'Atlantide
Specchio di tutte queste fantascientifiche civiltà è quella del continente di Atlantide.
La zona della sua influenza si estendeva su tutte le coste bagnate dall'Oceano Atlantico, ma non aveva sede su queste terre poiché a quanto risulta i colonizzatori di esse venivano dal centro dell'Oceano, dalla mitica Poseidone, come l'avevano conosciuta gli antichi nel suo periodo di decadenza. Una immensa isola che aveva tutti gli attributi geografici per essere considerata un continente.
Oggi ì geologi, pur ammettendo larvatamente che nel mezzo dell'Oceano potesse esistere un tempo un simile continente non si pronunciano chiaramente. Ancora una volta dobbiamo ricorrere alle tradizioni e alle leggende sulle origini storiche dei popoli residenti sulle coste atlantiche.
Il colonizzatore delle civiltà del centro America, Quetzalcoatl, il Serpente piumato, discese dal suo naviglio, avvolto nella sua tunica bianca, proveniente da Est, dalla parte del sole nascente.
Il cronista spagnolo Fuentes y Guzman, nel periodo della Grande Conquista, descrivendo il contenuto di alcuni manoscritti redatti da indigeni in schiavitù riporta che « la venuta dei padri è dall'altra parte del mare, di dove sorge il sole ». Dall'Europa si direbbe...
Tuttavia nel vecchio continente nonesiste un ceppo umano che ricordi quelli esistenti nelle Americhe. I padri di quegli indigeni dovevano venire da un posto che era situato in mezzo all'Atlantico. Il « Popol Vuh », antico testo sacro del popolo Quichè del Guatemala, fa sovente menzione del Regno di Oriente e del suo re Nacxit. Si legge tra l'altro che alcuni giovani « decisero di andare verso l'Oriente, pensando di adempiere così l'esortazione dei loro padri, che essi avevano dimenticato ».
Partiti dal Guatemala, « attraversarono sicuri il mare quando si recarono là nell'Oriente, quando andarono a ricevere l'investitura del regno ». Là giunti furono ricevuti dal potente re.
« Era questo il nome del Signore, Re dell'Oriente dove si recarono. Quando giunsero dinnanzi al Signore Nacxit (abbreviazione di quel citato Quetzalcoatl colonizzatore del Messico e dello Yucatan), che questo era il nome del Grande Signore, l'unico giudice supremo di tutti i regni, costui diede loro le insegne del regno e tutti i suoi distintivi ».
Dal canto loro anche i popoli europei delle coste atlantiche ponevanola presenza di un continente madre ad occidente, nel mezzo dell'oceano, da cui giungevano i capi a cui erano sottomessi, gli uomini dal « sangue blu ».

Nei manoscritti aztechi non sono rare le raffigurazioni di uomini in volo muniti di strani ordigni che fanno pensare agli odierni propulsori nucleari

Di diversa egemonia politica e culturale erano al contrario i popoli dell'interno, nel bacino mediterraneo. Narra Platone, il celebre filosofo ateniese, nei suoi « Dialoghi », come la cultura egea si oppose all'invasione del popolo atlantideo nel periodo della sua decadenza, forse proprio nel periodo della grande catastrofe che distrusse il continente.
« ...Poiché dicono le scritture come la vostra città (Atene) distrusse un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un tempo tutta l'Europa e l'Asia, muovendo al di fuori dell'Oceano Atlantico. Questo mare era allora navigabile, e aveva un'isola (Atlantide) innanzi a quella bocca che si chiama, come voi dite. Colonne d'Ercole ».
« L'isola era più grande della Libia e dell'Asia riunite, e i naviganti potevano passare da quella alle altre isole (Terranova, le Antille), e dalle isole a tutto il continente opposto (Le due Americhe), che costeggiava quel vero mare. Poiché tutto questo mare, che sta di qua della bocca che ho detto, sembra usi posto d'augusto ingresso, ma l'altro potresti chiamarlo un vero mare, e la terra, che per intero abbraccia, un vero continente ».
« Ora, in quest'isola di Atlantide v'era una grande e mirabile potenza regale, che possedeva l'intera isola e molte altre isole e parti del continente. Inoltre di qua dello stretto dominava le regioni della Libia fino all'Egitto e dell'Europa fino alla Tirrenia (Etruria). E tutta questa potenza raccoltasi insieme tentò una volta con un solo impeto di sottomettere la vostra regione e la nostra e quante ne giacciono di qua della bocca ».
Ma di tanto splendore e cultura ci è rimasto nulla a testimoniarne la grandezza, scomparsa per volere degli dei che intendevano « punire » gli atlantidei che avevano disobbedito ai loro voleri.
« Scomparve l'isola di Atlantide », ci dice ancora Platone, « in una notte e in un giorno di terremoti e inondazioni, assorbita dal mare, perciò ancora oggi quel mare è impraticabile ed inesplorabile essendo d'impedimento i grandi bassifondi di fango, che formò l'isola nell'inabissarsi ».
Per secoli, dalla catastrofe, che i sacerdoti egizi stimarono avvenuta intorno al 5000 avanti la creazione dell' Egitto (circa 8000 a.C.), il fatto bloccò le esplorazioni europee verso il continente americano, giungendo a modificare persino le conoscenze geografiche, radicando nelle culture il terrore di pericoli infidi e mortali all'orizzonte dell'Oceano Atlantico.
Tuttavia sorprende il bagaglio di conoscenze geografiche di cui Platone fa indifferente sfoggio nel descrivere la posizione di Atlantide, riferendosi senza equivoco di sorta all'esistenza delle due Americhe.
Da chi apprese queste cognizioni che non « doveva » essere in grado di possedere? Rimane un grande interrogativo che forse un giorno troverà risposta solo fuori della Terra.
Forse sulla stessa Luna, dove, se veramente sono già esistite superciviltà atomiche precedenti la nostra e se l'hanno esplorata come lo stiamo facendo noi ora, troveremo traccia di quei segni eloquenti del loro passaggio, di quelle testimonianze preziose che né gli agenti atmosferici né l'ignoranza umana hanno potuto distruggere e finalmente conoscere tutta la storia del nostro paradiso perduto.

Giancarlo Barbadoro